martedì 5 settembre 2006

Settembre, tempo di cambiare il menu

Come diceva il poeta, settembre, tempo di migrare verso un altro menu.

Abbandonate le minestre fredde o i piatti confezionati appositamente per il turista, ora il gioco si fa serio. Da Matteo, il mio fruttivendolo di fiducia, vanno via via scomparendo i peperoni ed i cetrioli di produzione nostrana, mentre cominciano a fare capolino le primizie invernali. Allora basta ratatouille, avanti con i cavolfiori.

Per me il cambio del menu stagionale rappresenta un periodo di particolare fermento delle cellule celebrali. Si tratta di mettere insieme una serie di piatti che siano organici tra di loro ma diversi, accattivanti, curiosi, con un pizzico di spregiudicatezza, ma nel solco della tradizione culinaria del posto dove lavoro.

Facciamo un esempio. Cavalcando la moda di questi ultimi tempi (anche in cucina esistono le mode, ma ne parleremo in un altro post) ho ampliato la scelta degli antipasti inserendo altri due crostoni di pane. Uno dei piatti che prediligo sono le trippe, come le faceva mia madre o mia suocera: una prelibatezza anche per gli schizzinosi che in genere le odiano perché sono viscide. Le mie trippe non hanno niente a che fare con quella specie di colla che si prepara in certe regioni, e questo genera discussioni a non finire con i miei commensali: signori, io le faccio così, ed i complimenti poi me li tengo tutti io.

Bene, dicevo che amo le trippe. Perché allora non servirle come antipasto? Un assaggino, come direbbe la signora impiantando la forchetta nel piatto del marito, perché lei alla sua linea ci tiene. Un crostone di pane al pomodoro e cipolle, un cucchiaio di trippe tagliate fine, una verdurina di guarnizione, e l’antipasto è fatto (si fa per dire).

Sulla carta comparirà la dicitura: pane al pomodoro e cipolla con trippe.

E qui ci fermiamo. Io credo alla semplicità, diffido del barocchismo.

Oggi più che nel Seicento impera il barocco. In un ristorante stellato probabilmente il mio antipasto – uguale ed identifico nella sostanza - uscirebbe così: florilegio di interiora di vitella (alla toscana, fa più scic) tagliate a coltello su crostone caldo di pane al pomodoro di Pachino e cipolla di Tropea fatto in casa, piccola misticanza al balsamico tradizionale di Modena con spolverata di pepe nero e spuma di citronette (che poi altro non sono che quelle tre gocce di limone frullato messe in qualche angolo del piatto).

L’effetto è far pagare al cliente un po’ di euro in più; d’altra parte, ragazzi, la materia celebrale dello chef non è a buon mercato.


Io odio queste cose. Primo perché se ogni piatto dovesse essere descritto così, dovrei aggiungere tre pagine in più alla mia carta, con relativa traduzione in inglese (e farebbero sei pagine). Visto che me li stampo e me li confeziono io i menu, non mi pare il caso di rompermi ulteriormente i santissimi.

Secondo, perché rispetto il cliente, ed ho il vago sospetto che certo barocchismo sia una presa per i fondelli per chi deve prima leggere e poi mangiare. Più o meno il ragionamento è questo: io (chef di questo blasonato ristorante) ti dimostro che non capisci una mazza di quello che mangi, e ti rincoglionisco con tante belle parole che ti ci vogliono cinque minuti per tradurre quello che potrei dire semplicemente. Tu (cliente imbecille) devi solo ordinare quello che non capisci e pagare qualche decina di euro.

Semplice. Però tu potrai dire con orgoglio a tutti che da me hai degustato “florilegio di interiora di vitella tagliate a coltello su crostone caldo di pane al pomodoro di Pachino e cipolla di Tropea fatto in casa, piccola misticanza al balsamico tradizionale di Modena con spolverata di pepe nero e spuma di citronette”.

Questa è arte, signori, barocca se si vuole, ma arte.