martedì 9 gennaio 2007

Seven years ago


Sembra ieri ed invece sono già passati sette anni. Di questi giorni stavo preparando le valigie per il mio primo (ed ultimo, fino ad ora) viaggio negli USA.
Viaggio di vacanza e di lavoro, perchè andavo a verificare di persona, come mi avevano suggerito diversi amici di colà, come cosa e quanto mangiano gli americani, per verificare l'opportunità di aprire colà un ristorante italiano, una succursale di questo italiano che - a detta sempre di quegli amici americani - avrebbe portato soldi a palate.
Per otto mesi avevo accumulato materiale: riviste, Internet, contatti diretti con l'Associazione Ristoratori di colà, insomma qualche raccoglitore di carta per stendere il mio businessplan, che sarebbe diventato il mio dreamplan. Per non perdere tempo avevo già stampato delle schede di valutazione sui vari ristoranti del posto, primi fra tutti quelli con il nome italiano o che il web indicava di cucina italiana.
Poi avevo preparato le schede di rilevazione prezzi degli alimenti (italiani) che mi sarebbero serviti nel menu. Avevo già fissato gli appuntamenti per le interviste, e via di questo passo. Chi segue questo blog ha già capito che avevo previsto tutto.
Dunque Milano-Washington-Portland nel Maine (mi raccomando, non nell'Ohio), a ridosso del Canada, nel New England, nella terra dei Padri Pellegrini, una delle dream city più invidiate degli Stati Uniti, dove l'unico omicidio dell'anno occupa la prima pagina dei giornali per settimane, dove una coda in auto sono quattro macchine ferme al semaforo (parola dell'Ente del Turismo del Maine, ed è vero).
Arriviamo al jetport di Portland dopo le otto di sera, il tempo di arrivare in albergo (cazzo, prenotato su Internet è poco più di un motel, ma chissenefrega, siamo in America!), posare le valigie, chiamare un altro taxi e scaraventarci nel primo ristorante "italiano" - Esposìto's, con l'accento sulla i - della mia lista. Sono le nove e due minuti. Apro la porta e mi trovo quattro persone che si bloccano come statue di sale alla mia comparsa.
- Si può mangiare qualcosa? - balbetto nel mio inglese dilettantesco.
- Sorry, it's closed.
- Cazzo, alle nove della nostra prima sera americana, in una città che potrebbe essere Vladivostok o Katmandu, per quello che la conosco.
Il mio senso dell'orientamento mi dice mi andare da quella parte, a piedi, perchè non siamo a New York e di taxi neppure l'ombra. Dopo un quarto d'ora di scarpinata finalmente troviamo uno squallido fast-food, dove la domenica sera - dice il cartello - i bambini accompagnati non pagano. Ovviamente è pieno di famiglie superobese con relativi bambini che si abbuffano di non meglio precisati bocconi e bicchieroni di Cola. Beh, almeno non muoriamo di fame, almeno non questa sera. Ci rifaremo domani.
Sembra come quest'inverno. Il Maine è considerato il Trentino degli USA, dove la neve dura sette mesi all'anno: già a Washington l'agente dell'immigrazione di turno, guardando i nostri passaporti e dopo averci chiesto la destinazione, si è stupita del nostro interesse geografico:
- It's very very cold in Maine.
Che volete farci, ma a metà gennaio non era ancora caduto un fiocco di neve. La mattina dopo, al nostro risveglio, l'America ci dà il buongiorno con almeno sessanta centimetri di neve fresca. Wow! Chiamiamo un taxi che ci porta - o forse lo portiamo noi, perchè qui non esistono né catene né gomme chiodate - in centro, a far colazione. Unici avventori in un bar e quasi unici disperati a girare in città con sessanta centimetri di neve. Apprenderemo il giorno dopo dai giornali che la nevicata è stata letale per due persone, un homeless ed un'anziana che si è avventurata a spalare la neve dal giardino.
Una cosa comunque è strana, qui. Sessantacentimetri di neve al primo sole si sciolgono come burro e nel giro di qualche ora non rimane traccia.
In compenso rimane il freddo che gli americani, più intelligentemente di noi, misurano in due modi: in gradi reali, Farenheit o Celsius, ed in gradi apparenti, quanto cioè avvertiti dal nostro organismo. Posso solo dire che siamo arrivati, durante il nostro soggiorno, a ben quaranta sotto, sicuramente apparenti o forse anche reali, dato che per la prima volta ho visto l'oceano ghiacciato.
Quando un'amica di Genova me l'aveva detto, non le avevo creduto: impossibile che l'acqua salata ghiacci. Ed invece è proprio così. Il ghiaccio si impossessa delle spiagge e si inoltra nel mare per metri e metri, uno spettacolo incredibile.
Se non c'era vento si stava anche bene. A meno dodici il nostro parka ci dava quasi fastidio e dovevamo tenerlo aperto, i ragazzini uscivano da scuola con le t-shirt e le impiegate uscivano dall'ufficio (in mezzo alla neve) con i tacchi a spillo.
Ma quando si alzava la bufera, non c'erano santi che potessero aiutarti ad avanzare tra vento e neve. Mia moglie si era comperata sul posto dei sovrapantaloni in sintetico per ripararsi, ma il vento entrava da tutte le fessure degli abiti per arrivare fino al midollo osseo. Per precauzione, quando volevo fare qualche foto, dall'interno dell'auto riscaldata inquadravo il soggetto, mettevo a fuoco, impostavo tempi e diaframma, mi mettevo la macchina in tasca ed uscivo. In una frazione di secondo estraevo la macchina dalla tasca, la portavo all'occhio, scattavo, e di nuovo saltavo dentro l'auto.
Tanto coraggio è stato poi omaggiato dal laboratorio fotografico locale con un rullino nuovo, perchè il mio - per un banale errore - era stato bruciato. Thanks, mister.

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