venerdì 15 settembre 2006

La prova del cuoco (1)

Quando esistevano ancora le mezze stagioni i grandi magazzini si distinguevano, oltre che per il target di prodotto e di prezzo, anche per l'avvenenza delle commesse. Nella scala estetica il gradino più basso era occupato dalla Standa, poi a salire veniva la Upim fino al top della classifica con la Coin, dove venvano impiegate le migliori gnocche. Poi, con il proliferare dei centri commerciali e la "democratizzazione" dei posti di lavoro, il discorso si è omologato un po' dappertutto.
Diciamolo chiaramente: anche nella realtà della ristorazione a tutt'oggi si bada molto ai centimetri di pelle esposti piuttosto che alla professionalità del personale di sala. Di recente mi sono fermato una sera in una pizzeria che non frequentavo da tempo; a servire ai tavoli c'era ancora una signora, professionalmente molto brava, ma già avanti con l'età. Nonostante il suo corpo evidenziasse con crudele spietatezza il passare degli anni, la signora in questione esibiva una minigonna vertiginosa con camicetta super attillata ed altrettanto sbottonata. Vi assicuro da uomo che la visione era tutt'altro che piacevole. Ma tant'è, anche in questo stiamo scimmiottando i peggiori aspetti della vita americana.
E, a proposito di Usa, uno studio rivela che due americani su tre in gioventù hanno lavorato nella ristorazione ad un qualche livello. Studenti in cerca di qualche soldo, giovani senza arte né parte, stranieri senza fissa occupazione, tutti trovano qualche ora retribuita (magari in nero) in qualche sala.
Le conseguenze le abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Cameriere procaci e sculettanti che non sanno minimamente quali ingredienti ci sono in un piatto, analfabetismo gastronomico dilagante, non parliamo di vini e loro abbinamento con i cibi, anche perchè un sommelier in sala solo pochi possono permetterselo. Ed in cucina i cuochi, come evidenzia il buon Brambilla, ne pagano le conseguenze: comande che non hanno né capo né coda (antipasti che escono assieme a primi e secondi, primi replicati come secondi), piatti stravolti dal cliente con il beneplacito della cameriera (un filetto molto ben cotto!), accozzaglie di scelte tra le più stravaganti.
Se a questo aggiungiamo che l'ignoranza gastronomica è direttamente proporzionale alla diffusione di programmi televisivi (e radiofonici: ascoltate Radio Due la domenica mattina alle otto) sulla cucina, il panorama è quasi completo.
Sui giornali di settore si discute molto sulla preparazione fornita dagli istituti professionali alberghieri. Personalmente non credo molto alla scuola: gli insegnanti possono dare - non dico che danno - tanti elementi utili per la professione, ma se poi non c'è la passione e la volontà di fare al meglio comunque, anche se si tratta solo di un lavoro stagionale o temporaneo, i risultati sono ben scarsi.
Annie Feolde (Enoteca Pinchiorri di Firenze) e Heinz Beck (Cavalieri Hilton di Roma) sono due illustri esempi di come si possa arrivare ai vertici della guida Michelin senza aver frequentato una scuola professionale. La signora Feolde si onora addirittura di non aver mai fatto neanche un corso di cucina.
Tornando alla sala, Matteo, il figlio ventenne di miei amici, ha abbandonato le superiori per fare il cameriere. Quale disonore! Il suo impegno in albergo è stato inversamente proporzionale a quello messo negli studi, tanto che ora - a venticinque anni - è maitre a Londra in ottime strutture e se lo contendono in molti.
Il massimo sarebbe avere professionalità e bellezza. Mia cognata un'estate ha avuto in sala un cameriere - maschio - che si distingueva per la grande bravura ed il delizioso fondo schiena, a detta delle clienti femmine. Ma è come fare un terno al lotto.

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