giovedì 11 gennaio 2007

Il dio denaro



La differenza tra i grandi chef europei, italiani in particolare, e quelli americani sta in una sola parola: business.
Al ritorno dagli Stati Uniti ho preso il mio businessplan, l'ho completato con le osservazioni fatte sul luogo e l'ho inviato all'Università del Maine per un parere (gratuito, perchè così si può fare in America). Un mesetto dopo mi è tornato indietro, chiosato da un emerito professore.
Nuova revisione, e l'ho spedito questa volta ad uno che nel settore ci lavora già, al presidente dei ristoratori italiani in America nonché patron del San Domenico di New York. Molto cortesemente anche lui se l'è studiato e me l'ha restituito con un'osservazione: il suo (mio) ristorante è destinato a fallire nel giro di un mese.
Entusiasmante! Cos'avevo sbagliato? Cosa c'era che non andava? Le cifre erano esatte, il piano perfetto, ma la voce profetica mi avvertiva inesorabile che, anche trovando i fondi d'investimento, sarebbe esploso come una bolla di sapone.
Perchè?
Non mi è stato difficile capirlo. Negli USA il business non ha le dimensioni italiane. Non si può pensare di aprire un locale a conduzione familiare, dove una cinquantina di coperti al giorno ti permettono non solo una conduzione ottimale, ma anche un reddito netto più che dignitoso. Lì o fai i grandi numeri o sei destinato a chiudere. Proprio in quei giorni mi capitò di leggere che per una nuova apertura in California erano stati investiti 3,5 milioni di dollari, con un'aspettativa di entrate di 2 milioni di dollari all'anno. Fate voi i calcoli, e vedete a quanti coperti al giorno corrispondono. Per gli americani le nostre cifre fanno ridere.

Qui sta la differenza, come paragonare Valentino e la Nike.

Lo stesso vale per gli chef. Prendiamo il numero uno della nostra ristorazione, Gianfranco Vissani. Con la notorietà che ha acquisito, checché se ne dica, e con la qualità della sua cucina, non a caso è al primo posto in tutte le guide, potrebbe sfruttare talento ed immagine per aprire il Vissani n.2 e n.3 - che ne so - a Roma, Milano, Firenze, Venezia, o anche Parigi, New York. Invece se ne sta chiuso (si fa per dire, tanto giustamente ormai non c'è mai) in quel di Baschi.

Ho citato Vissani, ma potrei dire di Alajmo, Iaccarino, Santin, Santini, Feolde o Beck, prototipo quest'ultimo della non-managerialità dei cuochi italiani, bravissimi, geni sui fornelli, ma lontani anni-luce dalla concezione di sfruttare la propria genialità a fini di business. Forse due casi fanno eccezione: Marchesi che ha aperto (e chiuso) a Parigi e Cracco-Peck, ma sono appunto eccezioni.
Ognuno è sazio del proprio orticello, senza pensare ad espandersi con altre esperienze. Forse ha ragione mio figlio che, discutendone ieri sera, affermava che i cuochi italiani (e francesi) hanno il gusto dell'artigianalità: anche quando il locale va a gonfie vele e la brigata va egregiamente avanti anche senza lo chef-patron, questi vegliardi pluristellati sono ancora lì, se non a condire l'insalata per il cliente, comunque a provare e riprovare nuovi piatti.

Non ho parlato di Vissani a caso. Il maestro è l'unica star televisiva onnipresente sui nostri schermi. In America il fenomeno è dilagante: basta aver la faccia da gran figlio di puttana ed un produttore si trova sempre per riempire un qualche canale, non è necessario essere un grande chef (nella cara vecchia Europa c'è il caso di quel fighetta di cuoco inglese, dicono un mezza sega, professionalmente parlando, ma che fa tanto sex-appeal presso le casalinghe disperate che l'hanno impalamato ormai come star).
In America, si diceva, vive un certo Mario Batali, chef e patron al Greenwich Village di NY. Che ha fatto? Dopo esser comparso il tv, ha sfruttato la sua notorietà non solo per consolidare la sua cucina italiana nella Grande Mela, ma ha pensato bene di sfruttare il momento magico aprendo altri locali, dodici in sei mesi!, mettendosi a capo di quello che ormai è un impero.
Tutta qui la differenza fra noi e loro.
Non tiratemi fuori i discorsi sulle tasse, sul costo del lavoro e balle simili: da noi manca la mentalità di fare business, non è nel nostro DNA cattolico, dove il denaro è considerato peccato, mentre oltreoceano il protestantesimo insegna che più guadagni, più fai fruttare i talenti che il Padreterno ti ha messo a disposizione, e quindi maggior merito hai agli occhi di Dio.

Ed infine, noi piccoli chef e patron italiani abbiamo un grosso difetto, quello di pensare di far tutto da soli.
Qualche sera fa Rai Uno o Due, non ricordo, ha fatto un bel servizio sulla carriera di Valentino ed altri illustri stilisti nostrani. Ma Valentino è diventato un impero solo dopo aver trovato il socio che lo affianca da tempo: Valentino pensa al piatto, ma ha chi pensa a chi come dove quando venderlo è un altro. Pensate se Vissani (sempre lui!) avesse al suo fianco un manager che pensa al resto: tu vai in tv, fai le serate, le conferenze, i libri, i calendari, al resto ci penso io. Oggi potrebbe avere un impero.
Qualche ingenuo obietterà che forse non gli interessa. Mmmm, chi sputa sul denaro, soprattutto se gli costa solo la fatica di passare al trucco?

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