venerdì 16 marzo 2007



Red Chef è nella casa nuova:


http://www.bistrotchezmaurice.com/


(I problemi sono stati risolti, spero)






giovedì 15 marzo 2007

Buon appetito

C'è una strana moda da qualche anno a questa parte. Sono molto aperto alle innovazioni, ma certe cose non riesco a farmele digerire, come il politically correct.
Lo spazzino è l'operatore ecologico, il cieco è il non vedente, la ginnastica è l'educazione motoria, il portaborse è l'assistente parlamentare. Su questa scia i neo filologi del galateo vorrebbero portaci via certi usi che rientravano nei dettami di Mons. Della Casa.
Buon appetito non si dice più. In epoca democratica non esiste più il signorotto che dà il via al pasto dei servitori con la formula del buon appetito: basta un cenno col capo della signora capotavola per iniziare.
Orbene, quante parole ed allocuzioni sono entrate nel lessico quotidiano perdendo di significato! senza che nessuno si scandalizzi più di tanto. Facciamo una rapida carrellata.
Signore. In moltissimi altri paesi il termine accompagna il ruolo, la professione, il nome proprio, senza che chi lo dice si senta servitore del "signore": Monsieur le President, Herr Doctor, Mister Smith, Yoko San.
Egregio. Uno dei più nobili aggettivi è in effetti una gran offesa: l'ex-grege è il caprone, il montone, quello che sta fuori del gregge, ma è pur sempre un quadrupede cornuto.
Esimio. Altro attributo per cattedrattici e simili: ex-imo, tirato fuori dal fango, quello che
in parole povere era una merda.
Imbecille. Caso inverso: cum baculo è la persona che si serve del bastone, l'anziano per antonomasia. Se fra qualche anno uno mi dice imbecille, gli farò un coso così.
Ciao. Il massimo del classismo: il veneziano
(tuo) schiavo diventa sc-iavo, ciavo, ciao.
E fermiamoci qui.

Buon appetito, signore e signori. Continuerò a dirlo. Se non vi garba, posso eliminare anche buon giorno, buona sera, mahlzeit, griesgott, see you. Come dire: ognuno si faccia i cazzi suoi. Ma non rompete più con 'ste fisime.

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mercoledì 14 marzo 2007

Lo Chef è fuori di testa


Ammetto di essermi montato la testa, ma non è tutta colpa mia.
Qualche giorno fa ho voluto curiosare su BlogItalia ed ho scoperto che questo mio almanaccare abbastanza quotidiano ha ben 120 link: cosa abbia fatto io per meritarmi tanto non lo so. In fin dei conti i miei amici di blog che ho linkato non sono neppure una trentina di numero (di trentine vere ci sono le Derelitte, la Musa...).
Questo blog ha pure filiato, ma Blogger mi sta un po' stretto. All'inizio ho scelto il monolocale che era disponibile, poi sono aumentate le esigenze e l'angolo cottura sta scoppiando, ho bisogno di altri pensili e di altri elettrodomestici. Così stanotte ho deciso: mi sono comperato casa.
Prima di fare l'open house Giulio l'ingegnere mi ha promesso di metterci mano. Ho già visto qualche progetto interessante, ma dobbiamo sistemare la camera per Red Chef, per il Gabbiano, dovrebbe venire, se non proprio a coabitare, almeno a far visita frequentemente l'Otolana Botanica e quindi avrà bisogno anche lei di uno spazio dove almeno lavarsi le mani. E poi... non si sa mai, mai mettere limiti alla Provvidenza.
Quando sarà pronta diramerò gli inviti; non voglio fare la figura di qualcuna (non facciamo nomi, ma solo nick, come Perec) che si è trasferita in un bel locale, con una gran bella insegna, ma cozì zpoglio. Oddio, va bene il minimalismo, ma sembra quasi un arredamento svedese, tipo anni Cinquanta, però si sa come sono certi intellettuali.
Penso che opterò per i toni caldi alle pareti, anche se il BW fotografico mi alletta. A proposito, in una stanza potrei anche esporre le mie foto, ma non so se qualcuno si può scandalizzare; potrei chiudere a chiave la stanza, e darla solo a persone fidate, sentiremo l'ingegnere se si può fare.
Metter su casa, anche se virtuale, è un gran bel lavoro.

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lunedì 12 marzo 2007

Non si butta via niente


Lavoro a diverse centinaia di chilometri dalle capitali e tra i miei clienti non ho (finora) nessun capo del governo o stilista di alta moda, per cui sono un cuoco povero. Essendo stato povero anche da piccolo, mia madre e l’appetito mi hanno insegnato a lasciare sempre il piatto pulito, a fare la scarpetta con il sugo rimasto.
Questo principio, sommato con i principi cristiani che in Biafra ogni giorno muoiono di fame tanti bambini, mi ha portato a sposare pienamente il principio vissaniano che in cucina non si butta via niente (da cui si deduce che la cucina è come il maiale, e chi ci lavora è un maiale).
Di necessità ne ho fatto virtù, e niente mi esalta di più di una vellutata (o zuppa, o crema di verdure, a voi la scelta del nome).
“La vellutata sta per finire” mi annuncia la mia aiuto. No problem. Cos’abbiamo in dispensa? Un quarto di zucca abbandonata in un angolo, un cavolfiore con le cimette come le mimose il 9 marzo, qualche foglia di verza che non si può usare per decorare i piatti, dell’insalata che non possiamo più mettere nel buffet. Splendido: ecco la nostra vellutata. Si lava il tutto, si taglia grossolanamente, si mette una foglia di alloro a profumare l’olio caldo, si “irrobustisce” con un pezzo di speck o pancetta nascosta dentro il cassetto, si aggiungono le verdure e si fanno rosolare; due dita di vino bianco per sfumare quando cominciano ad attaccare.
Evaporato l’alcol aggiungiamo l’acqua, non troppa, deve solo coprire sennò viene una sbrodaglia, ed il gioco è quasi fatto. Due o tre spezie dosate sapientemente, mixer ad immersione e ci siamo sul serio. Per completare una spruzzata di pepe fresco dal macinino ed un filo d’olio a crudo sul piatto. Semplice.

Qualche giorno fa una signora è venuta a trovarci la prima volta all’inizio della sua settimana bianca. Estasiata dalla vellutata mi ha chiesto la ricetta. E’ tornata alla fine della settimana e me l’ha richiesta per iscritto. Avevo la sala piena per cui le ho promesso un’email che ho spedito il giorno dopo. Mi ha risposto con grande cortesia, dilungandosi in complimenti per la velocità e la disponibilità a divulgare i miei segreti.
Non ho segreti per la vellutata. Certo che la ricetta che ho dato sopra è un po’ incompleta…

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domenica 11 marzo 2007

Il capo


Lo chef è uno chef, come Sanremo è Sanremo. Ed invece no, o meglio nì, a seconda del significato che diamo al termine chef.
Lo scef o cif, ma noi preferiamo scef nella lingua semi-ufficiale della cucina, è il capo. In termini militari è corretto: lo chef è colui che ha il diritto di vita e di morte nel suo regno: assume, sospende, licenzia, comanda, impone, promuove, declassa il personale, decide cosa e come mangiano i clienti, amministra il budget, la sola entità a cui deve inchinarsi. Insomma fa il bello e il cattivo tempo in cucina.

Si accolla tutti gli onori, anche se poi è il sostituto, il sous-chef, a mandare avanti la baracca, a sostituirlo anche trecentosessantacinque giorni all’anno se il capo è impegnato altrove (leggi: tivi analogiche, digitali e satellitari, libri di cucina, conferenze, giurie, seminari, simposium e vacanze alle Maldive). Dovrebbe accollarsi anche le colpe, ma qui il condizionale è d’obbligo, perché in genere è colpa del commis, del lavapiatti, del capopartita o del sous-chef a seconda dei livelli di colpa.
Mi piacerebbe essere uno chef, ma gli aiuti che si sono succeduti al mio fianco (o sotto di me?) mi hanno sempre chiamato per nome, mai per titolo.

Chef, però, è negativo, io preferisco leader. La differenza è sostanziale: il capo comanda, il leader guida.
Hitler era un capo, Napoleone un leader.
Il capo ordina, impone e la truppa deve eseguire, piacente o nolente. Il capo non rende conto del suo pensiero e del suo operato, gli obiettivi sono solo suoi, impone la sua volontà con la coercizione, la minaccia o addirittura con la violenza. E’ normale quindi che i sottoposti lo temino e lo odino.
Il leader ordina quando deve, ma orienta, guida, fa partecipi gli altri degli obiettivi, si adopera perché tutti li condivino, li approvino, anzi farà in modo che siano i suoi collaboratori a farli emergere da soli, chiede la partecipazione, è in testa alla cordata per arrivare alla meta.
C’è un solo limite a tutto questo, ed è il quoziente d’intelligenza di chi gli sta intorno. Neppure facendo bruciare appositamente le pentole con il sugo di pomodoro riesco a far capire alla mia plongère che i bidoni delle immondizie deve metterseli a posto lei. QI = 37, niente leader, solo capo.
Uno chef capo si distingue dallo chef leader soprattutto in una cosa, nel secretare o divulgare le proprie ricette. Il capo non ammette democrazia nei suoi segreti, il leader non ha problemi a farne partecipi gli altri e non solo: sarà orgoglioso se i suoi aiuti li sapranno riprodurre alla perfezione, o addirittura li sapranno perfezionare. Di sicuro Cimabue con Giotto fu un leader.

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Mezza sera di fuoco


Chiuso. E' passato anche il sabato sera, quello del pienone. Stanchi e soddisfatti, non solo per la cassa che ride, ma perchè era la prova del fuoco.
Giovedì scorso, giorno di chiusura, ho messo a punto il nuovo menu di primavera, l'ho stampato, l'ho confezionato, ho fatto gli ordini in extremis, e venerdì mattina siamo partiti. Una bella tirata di sei ore ci ha permesso di arrivare con quasi tutti i piatti pronti, mi mancava solo la mousse di mele che ho fatto stamani.
Questa è la stagione degli asparagi, dei primi piselli, del radicchietto nuovo, dell'agnello. E stasera eravamo attesi alla prova del fuoco, non nel senso di flambé, ma di vedere se il menu andava bene in una serata di massimo afflusso. Non è mancata la fantasia dei clienti, praticamente sono usciti tutti i piatti della carta, e mi pare che siano rimasti tutti soddisfatti, oltre che serviti con solerzia. Una grande bella serata.

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venerdì 9 marzo 2007

La minestrina in brodo


Anche noi bloggers non sfuggiamo alla logica dell’infor-
mazione più in generale, salvo qualche eccezione. Più di una volta, dando uno sguardo in sala, diciamo la nostra sui nostri avventori, cogliendo i loro difetti, le loro menate, quelli cioè che fanno notizia perché escono dalla normalità, negativamente.

Potrei dire, ad esempio, della capotavola di stasera che, dopo aver scorso tutta la carta, esclama:
“Tutta roba che mi fa male”.
Puta caso che ero dietro di lei, armeggiando al pc sul bureau. Le altre commensali l’hanno guardata, hanno guardato me e mi hanno sorriso delicatamente, come per dire:
“Abbia pazienza, è la nostra rompiballe, non ci faccia caso”.
Volevo dirle:
“Signora, se vuole le faccio una minestrina in brodo”, ma ho lasciato perdere. Ed infatti l’ineffabile ha ordinato, tanto per restar leggera, prima gli strangolapreti, poi uno stinchetto di maialino da latte con strudel di patate e spinaci.


Ma ci sono anche i bravi clienti, quelli che sanno scegliere, quelli che capisci subito che sono qui per deliziare se stessi e premiare la nostra professionalità. Qualcuno dirà che è perché sono gastronomicamente ignoranti, ma i migliori che mi sono capitati sono gli americani. Sempre cortesi, mai con i braccini corti, si affidano al cuoco con fiducia e
gustano, non si nutrono soltanto.
L’estate scorsa, in una calda sera, una coppia a stelle e strisce ci ha visitato. Dopo aver degustato, non cenato, hanno voluto parlare con me per avere delucidazioni sui piatti. Fra un po’ di francese (con lei), un po’ di italiano (con lui), un po’ di inglese (con entrambi) abbiamo parlato a lungo di cibo e vini.
La sera dopo sono tornati – e già questo significa bene – altra cena, altre parole dopo cena. Alla fine mi hanno promesso che mi avrebbero segnalato alla Guida (e quale, se non la Michelin?).
Inutile dire qual era il mio ego quando sono andato a letto. Ma non era questo l’importante, quanto aver trovato delle persone che capiscono qualcosa. Alla faccia della rompiballe.

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mercoledì 7 marzo 2007

Cuoco al campo


Cento anni e non li dimostra. Era il 1907 quando Baden Powell fondò lo scoutismo e quest'anno si celebra appunto il centenario, con il raduno mondiale in Inghilterra, il Jamboree, ma con manifestazioni in tutto il mondo.
I primi passi come cuoco li ho mossi proprio al campo ed alle uscite, cucinando per i miei fratelli di squadriglia. Non posso quindi dimenticare una data così importante per chi ha fatto nella sua vita la promessa scout, che lo impegna per tutta la vita.
Ne tratterò più diffusivamente nel blog gemello.

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martedì 6 marzo 2007

La principessa Ortica


Ormai ci siamo. L'inverno (ma quale?) è alle spalle e la primavera sta per fare il suo ingresso ufficiale anche in cucina. Fra un paio di giorni darò alle stampe il menu della nuova stagione e fa la ricomparsa sui miei tavoli una pianta che amo molto, l'ortica, quella che punge, quella che si trova ad ogni angolo di prato e di strada.
Bistrattata come poche altre, l'ortica è un'erba spontanea che il Padreterno ha fatto per un qualche motivo, primo fra tutti l'essere mangiata da noi umani. Per chi vuole approfondire gli aspetti terapeutici di questa erba officinale - in attesa che la mia figliola si decida ad aprire la sua sezione di cultura erboristica su questo blog - vi rimando ad una paginetta ben fatta del sito dell'Alta Val Trebbia, dove gli amanti delle ricette possono trovare anche qualche bello spunto.
Amo l'ortica perchè è gratis, almeno quella spontanea, perchè ci sono anche aziende agricole che la coltivano ed è giusto che la facciano pagare (per un cenone di Capodanno una volta me ne hanno mandato chili). Basta armarsi di una banale borsa di plastica da supermercato, un paio di grossi guanti, quelli da giardinere vanno benissimo, e madre natura la dispensa abbondantemente e a costo zero.
Amo l'ortica perchè è un ottimo stimolante contro la pigrizia, la mia. In genere mi comporto in questa maniera: approfittando della mia cronica carenza di sonno, mi armo dei mezzi di cui sopra ed alle otto di mattina, incrociando i ragazzini che vanno a scuola, mi dirigo a piedi verso un paio di prati vicini a casa. A quest'ora il sole è ancora basso e scioglie la rugiada notturna, fa ancora un po' fresco, ma vi assicuro che è un ottimo metodo per svegliarsi fuori completamente.
Raggiunti i campi prelidetti basta chinarsi e raccogliere. Delle prime ortiche prendo tutta la pianticella, rispettoso di lasciare nel terreno la radice che continuerà a sviluppare una nuova pianta. Più avanti con la stagione, quando i campi saranno impestati dalle irrorazioni dei veleni dei coltivatori di mele (in gergo: i pomàri), dovrò lasciare questi siti facili per un posto che fa perfino schifo, data l'abbondanza della materia prima, incontaminato da anticrittogamici e polveri sottili. Allora coglierò solo le parti più tenere della pianta, evitando quelle già in avanzata fase di fioritura.
Tornato in cucina con il malloppone, mi dedico alla pulizia delle foglie, le lavo per benino due o tre volte e le caccio in pentola per una sbianchitura veloce. Una volta abbattute, procedo allo stoccaggio per gli usi futuri.
E' proprio il lavaggio delle ortiche che mi dà delle sensazioni bellissime. Il profumo che si sprigiona a contatto con l'acqua mi porta agli anni più belli della fanciullezza, quando portavamo le braghette corte ed attorno alle nostre case di periferia i campi non erano ancora stati cementificati ed asfaltati. Giocavamo a nascondino in mezzo ai cespugli di rovi, e nell'attesa che mi scoprissero mi riempivo le narici ed il cervello del profumo delle ortiche e delle more, ascoltando il frinire incessante dei grilli nei torridi pomeriggi padani od osservando il volo luminoso delle lucciole nelle serate appena più fresche. Era il tempo di un solo canale televisivo in bianco e nero, disponibile per noi bambini dalle 17 alle 18.30, e poi per i dieci minuti di Carosello. E' quasi la preistoria.
Tornando alle ortiche, amo quel leggero pizzicorio che rimane anche dopo la lavorazione culinaria e che stimola piacevolmente la lingua. Adoro il risotto con le ortiche, ma lo faccio solo per me e pochi intimi, per i clienti nein, a meno che non si prenotino e siano puntuali all'ora fissata: non posso bloccare la cucina per chi non rispetta i tempi, o non posso farli aspettare mezz'ora, finchè questa delizia mantecata non viene deposta delicatamente nei piatti.
Agli gnocchi preferisco gli strangolapreti con le ortiche, ma siccome vanno a ruba non voglio metterli stabilmente in menu: dovrei ogni mattina farmi il giro per campi a raccoglierle, ed allora non è più un piacere. Altro capolavoro (non dò le ricette su questo blog, fedele alla parola data all'inizio: provate a farvele da soli) è il ragù di ortiche, meglio se senza il pomodoro che ne copre il sapore, solo ortiche con una buona pasta rugosa, o ancora il pesto, da consumare freschissimo.
Questo mi esalta: deliziarmi con delle foglie che solo quattro ore prima erano ancora sulla pianta, e quattro ore dopo sono nel piatto. Non c'è filetto che tenga, parola di carnivoro.


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lunedì 5 marzo 2007

Lo Chef è morto


Sono morto, o sto morendo. E' cominciato stamani con la crostata. Non è una morte psicologica, che per noi cancerini è un po' cosa normale, ma proprio fisica.
Sarà che è appena passato il fine settimana, che si sa è un po' il venerdì santo di nostro Signore, tutti i fine settimana, sarà che giovedì è vicino ma ancora così lontano, il giovedì di chiusura. Sarà la luna in opposizione, come dice Paolo Fox, però oggi mi sento in via di estinzione.
Non rido, mi sono perfino misurata la febbre, per avere almeno un alibi, ma neanche il termometro mi offre una spalla.
Fra mezz'ora devo scendere in cucina, riaprire i fuochi, fare i bigné, ritirare fuori la linea, aspettare i commensali e servirli senza poter dir loro: signori, non sto bene, passate domani. Questi vorranno cenare, non vogliono aspettare.
Se non passa, alle 9 mi faccio visitare dal dott. Carter: non c'è ER stasera?

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domenica 4 marzo 2007

Scateniamo i neuroni


Sto lavorando al nuovo menu di primavera. La base rimane la stessa, escono alcuni piatti i cui ingredienti sono invernali e ne entrano altri. All'appuntamento telefonico della domenica mezzodì con il figliolo chef in quel di Parigi gli chiedo una qualche idea per arricchire la mia carta con qualcosa di diverso. Mi stuzzica la fantasia con una vellutata particolare, i cui accostamenti degli ingredienti mi lasciano perplesso, ma incuriosito. Detto fatto, mi metto a pelar patate, tiro fuori le spezie, ed in men che non si dica ho confezionato la crema. Qualche aggiustamento ed il risultato è eccezionale. Facciamo tutti la prova degustazione ed il parere è unanime: sublime, direbbe Raspelli.
Ma non basta, occorre la prova sul campo.
Nel frattempo è arrivato un tavolo di sei persone. Stanno aspettando che escano i primi. Colgo l'occasione al balzo, verso la vellutata in due tazzine e le porto in tavola.
"Signori, vorrei un vostro parere. Non vi anticipo cos'è, provatela, assaggiatela, e datemi il vostro giudizio".
Torno due minuti dopo e sono entusiasti. Qualcuno parla di castagne, altri di funghi, sono solo patate.
Così funziona il nostro cervello. Fin da piccoli abbiamo associato una sostanza (non necessariamente un alimento) ad un gusto, come gli odori; se non sappiamo in precedenza cosa mangiamo o beviamo, il nostro cervello va in corto circuito e non sa dare l'informazione sul buono o sul cattivo. E' quello che fanno gli aspiranti sommelier: annusare, annusare ed ancora annusare odori diversi, memorizzarli, per estrarli al momento della degustazione del vino.
E lo stesso procedimento cerebrale avviene con i colori. Provate a lavorare il cioccolato fondente a bastoncino grosso come un dito e lungo una dozzina di centimetri, dategli delle leggere curvature e disponetelo su una fondina assieme a del vermouth. Nessuno lo assaggerà mai, perchè il nostro cervello abbina quel cioccolato ad un altro oggetto (lascio alla vostra fantasia immaginare).
Giocando sui colori
Roberta Razzano, art designer ha creato il Pinzirò, un pinzimonio in sale colorato. L'idea è un po' quella delle boccette con la sabbia colorata, nulla di nuovo, ma è comunque interessante per ravvivare un piatto. Più interessante è come fare il sale colorato, e quindi rimando gli interessati alla ricetta proposta. Anche per chi si diletta di cucina casalinga può essere un gioco da provare e proporre ai propri familiari.
E' proprio vero: non si finisce mai d'imparare.

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